martedì 12 aprile 2016

LE RAGIONI DEL SI DOMENICA 17 APRILE ANDIAMO A VOTARE FACCIAMO VINCERE IL NOSTRO MARE

Nello specifico si chiede di cancellare la norma che consente alle società petrolifere di cercare ed estrarre gas e petrolio entro le 12 miglia marine dalle coste italiane senza limiti temporali alla durata delle concessioni. Infatti, sebbene le società petrolifere non possano più ottenere nuove concessioni per estrarre in mare entro le 12 miglia, le ricerche e le attività petrolifere già in corso – secondo una norma approvata lo scorso dicembre – non hanno più scadenza certa.
Per mettere definitivamente al riparo i nostri mari dalle attività petrolifere occorre votare "Sì" al referendum. In questo modo le attività petrolifere andranno progressivamente a cessare, secondo la scadenza "naturale" fissata originariamente, al momento del rilascio delle concessioni.
Un'eventuale vittoria del "Sì" non farebbe perdere alcun posto di lavoro: neppure uno. Un esito positivo del referendum, infatti, non farebbe cessare immediatamente, bensì solo progressivamente, l'attività petrolifera in corso entro le 12 miglia, secondo le scadenze già stabilite. Prima che il Parlamento, lo scorso dicembre, introducesse la norma su cui gli italiani sono chiamati a esprimersi alle urne, le concessioni per estrarre gas e petrolio avevano normalmente una durata di 30 anni più proroghe. E ciò era noto a ogni società petrolifera (e ai suoi dipendenti) fin dal momento del rilascio della concessione. Una vittoria del Sì non farebbe altro che mettere una scadenza certa a queste concessioni già in atto: quella prevista al momento del rilascio, senza consentire ulteriori proroghe. Il punto è stato chiarito dalla stessa Corte Costituzionale che, nella sentenza di ammissibilità del quesito referendario (sentenza n.17/2016), ha precisato che l'effetto di una eventuale vittoria del Sì sarà quello di impedire "DEROGHE ULTERIORI QUANTO ALLA DURATA DEI TITOLI ABILITATIVI GIÀ RILASCIATI".
Le trivellazioni offshore sono attività di ricerca o estrazione del petrolio e del gas in mare.
Con il termine di uso comune “trivelle” si intende un insieme ampio e complesso di attività che vanno dalla perforazione dei pozzi di ricerca a quella dei pozzi di produzione, dalla realizzazione di gasdotti e oleodotti all'installazione di piattaforme petrolifere.
Gli impianti variano a seconda dei fondali, delle caratteristiche del giacimento e del tipo di combustibile estratto. Ma tutti - oltre ad avere delle emissioni inquinanti per il mare e l'aria - sono intrinsecamente insicuri, soggetti a possibili malfuzionamenti, incidenti, rotture. Dunque sono estremamente pericolosi per l'ambiente.
L'airgun è una tecnica di prospezione geosismica che consiste nel sondare i fondali marini con una sequenza di esplosioni di aria compressa. Queste esplosioni generano bolle d'aria la cui espansione repentina produce onde compressionali. La rifrazione di queste ultime sul fondo marino - interpretata da apposite apparecchiature - permette di mappare la composizione geologica degli strati che si trovano sotto i fondali e di ipotizzare la presenza di giacimenti di idrocarburi liquidi o gassosi.
Questi test producono livelli di inquinamento acustico fino a otto volte maggiori del rumore di un jet in fase di decollo. Hanno impatti negativi su moltissimi organismi marini (cetacei, tartarughe, pesci, molluschi e crostacei) e possono causare loro danni agli organi interni, alle uova o alle larve; stress, panico e altre alterazioni comportamentali come l'allontanamento da aree di foraggiamento o di riproduzione.
Studi scientifici dimostrano gli impatti negativi di queste attività sui cicli vitali di numerose specie ittiche: nelle aree dove si realizzano campagne di prospezione con l'airgun le catture della pesca possono ridursi fino al 70%, sia per le specie demersali che per le specie pelagiche. Questa riduzione degli organismi marini si osserva fino a 18 miglia nautiche (35 km) dal punto dove si concentrano le esplosioni.

È stato inoltre provato che le onde sonore provocate dagli airgun si propagano in mare per almeno 3000 km, con impatti negativi difficilmente stimabili, che possono includere stress comportamentali e psicologici cronici per le balene e altri cetacei (fra cui il pericolo di separare i piccoli dalle madri); uccidere organismi marini; interferire nei processi riproduttivi e confondere gli animali al punto di alterare le loro risposte ai predatori.
L'impatto sull'ambiente delle trivellazioni in mare può essere devastante: nessuno può escludere incidenti gravi e la portata di uno sversamento di petrolio, in un mare chiuso come il Mediterraneo, che impiega circa 90 anni per il ricambio completo delle proprie acque, potrebbe danneggiare gli ecosistemi in modo irreparabile.
Mentre tutti abbiamo ancora negli occhi e nella mente le immagini dei numerosi disastri che hanno costellato la storia dell'estrazione di petrolio in mare - a partire da quelle dell'incidente nel Golfo del Messico del 2011 - in Italia il legislatore ha deciso che le trivelle sono al 100% “sicure per legge”. Infatti una norma del 2005 (l'art.1 della legge 238) esclude le piattaforme petrolifere dalla categoria di impianti a rischio di incidente rilevante. Questo significa che le compagnie non hanno l'onere di dimostrare quali accorgimenti sono in grado di adottare per scongiurare, contenere o mitigare sversamenti di ingenti quantità di idrocarburi in mare. Semplicemente perché, secondo il legislatore, non possono avvenire in ogni caso!
È chiaro inoltre come le trivelle possano avere impatti negativi sul turismo e sulla pesca sostenibile, settori vitali della nostra economia che andrebbero tutelati da ogni rischio. Si pensi che il turismo costiero fa registrare ogni estate oltre 40 milioni di presenze di turisti stranieri nei nostri mari; e che la pesca oggi, senza contare i suoi indotti e la maricoltura, impiega circa 25 mila persone.
No. I dati parlano chiaro: le riserve certe di petrolio sotto i nostri fondali ammontano a meno di 2 mesi di consumi nazionali. Quelle di gas a meno di 6 mesi.
Riempire i nostri mari di trivelle, insomma, non ridurrebbe affatto la dipendenza energetica dell'Italia dall'estero. Ancor più: non stiamo parlando di risorse che, una volta estratte, sarebbero patrimonio della comunità. Non c'è una compagnia di Stato che potrebbe beneficiare di questo piano di trivellazioni, ma soltanto i petrolieri e il loro profitto privato. Petrolio e gas, una volta estratti, apparterebbero a loro, non agli italiani.
Poco. Anzi, pochissimo. I numeri forniti dal governo (25 mila nuovi posti di lavoro) sono gonfiati. Lo scrive chiaramente uno dei massimi esperti al mondo del settore petrolifero, Leonardo Maugeri: «L'industria del petrolio non è ad alta intensità di lavoro. Si pensi, per esempio, che la Saudi Aramco, il gigante di stato saudita che controlla le intere riserve e produzioni di petrolio e gas dell'Arabia Saudita, impiega circa 50 mila persone (molte delle quali solo per motivi sociali) per gestire una capacità produttiva che, nel petrolio, è oltre sette volte il consumo italiano, mentre nel gas è superiore del 40% al fabbisogno nazionale. Inoltre, le possibili produzioni italiane cui dare mano libera sarebbero vantaggiose (...) solo se si tengono sotto stretto controllo i costi, e quindi si limita l'assunzione di personale. Infine, gran parte dei siti produttivi si controllano con poche persone, in molti casi da postazioni remote. Anche nel caso di un via libera generalizzato alle trivelle, quindi, è alquanto dubbio che si possano creare i posti di lavoro di cui si è parlato (25 mila): forse il numero sarebbe di poche migliaia».
Mentre il governo con una mano sostiene un piano fossile che non porterebbe alcun reale beneficio in termini occupazionali, con l'altra sta adottando una serie di provvedimenti che penalizzano duramente il settore delle energie rinnovabili, quelle su cui puntano le maggiori economie mondiali: nell'ultimo anno e mezzo si stima che siano stati persi 60 mila posti di lavoro
Sono i diritti che le compagnie petrolifere devono versare allo Stato e ai territori interessati dalle trivellazioni. Sono espresse in percentuale del valore economico degli idrocarburi estratti. In Italia quelle per le trivellazioni offshore sono fra le più basse al mondo (o forse le più basse): solo il 7%. Tra l'altro, il gettito annuo delle royalties delle trivellazioni offshore (circa 400 milioni di euro) è paragonabile a quello che il governo ha sprecato non accorpando il referendum alle tornate elettorali ammnistrative.
No, a meno che per guadagno si intendano gli spiccioli. Il gettito che si può ricavare dalle royalties è trascurabile. Ad esempio, quello che sarebbe venuto da uno dei progetti più contestati negli ultimi anni (quello di Ombrina Mare, al largo delle coste abruzzesi) si sarebbe tradotto, per i cittadini di quella Regione, in circa 80-90 centesimi di euro pro capite all'anno.
Trivellare i nostri fondali, ecosistemi preziosi e delicatissimi, conviene solo alle industrie petrolifere, non alla collettività, allo Stato o ai governi locali.
È l'esenzione dal pagamento delle royalties sotto una soglia minima di produzione. O, se si preferisce, l'ennesimo regalo ai petrolieri.
Per le estrazioni in mare questa soglia è fissata in 80 milioni di metri cubi standard per il gas e in 50 mila tonnellate per il petrolio. A oggi, oltre la metà dei campi di estrazione in mare produce sotto queste soglie: dunque le compagnie non versano un centesimo di royalties. In pratica, è solo un trucco per non smantellare impianti sempre più obsoleti, fragili e pericolosi.

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